Uomo dei suoi tempi

Le Origini


Giusto Pinzani nacque a Pelago il 19 Novembre del 1897. Nei suoi primi anni ha vissuto a Contea, in un gruppetto di case chiamate l’Apparita. Contea è un piccolo paesino toscano con meno di 500 abitanti che sorge sulla sponda sinistra del fiume Sieve, nel comune di Rufina, a circa 30 km da Firenze. Nel 1897 però il comune di Rufina non esisteva, essendo frazione del vicino comune di Pelago. Solo il 2 dicembre 1915, a seguito di un  referendum, Rufina divenne un comune autonomo e, tra i vari borghi, anche Contea fu annessa al nuovo comune.

Giusto Pinzani con la moglie Italia Pesci

Nato da una famiglia contadina, Giusto era forse l’ottavo di dieci figli. Come per molti ragazzini della sua epoca studiare non costituiva una priorità. Probabilmente ha frequentato solo i primi due anni di scuola elementare imparando a fare la sua firma e riuscendo a leggere, anche seppure in maniera stentata. Si mostrò però molto abile con i numeri, capacità che gli sarebbe servita in futuro nello svolgimento del suo lavoro. Per le famiglie contadine dell’epoca il fiume era un’importantissima risorsa che dava acqua per loro, per i campi e per gli animali. Era anche luogo di ritrovo per i più piccoli ed infatti il fiume Sieve è stato, per il giovane Giusto e per i suoi compagni, spazio d’incontro e di gioco. Sulle sue rive iniziò ad interessarsi alla pesca, interesse che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, diventando la sua grande passione, seconda solo all’amore per la bicicletta.

Pinzani dedito alla pesca sulle rive della Sieve

Giusto era anche un abile nuotatore, evento molto raro per un ragazzino nato da una famiglia contadina. Si ipotizza, ma non lo sappiamo con certezza, che abbia imparato ed affinato il suo stile di nuoto proprio negli anni giovanili quando giocava sulle rive della Sieve. Questa sua peculiarità lo portò ad insegnare il nuoto alle proprie figlie che accompagnava, fin da piccole, a fare pratica sull’Arno, quando viveva a Firenze, incoraggiandole a nuotare da una sponda all’altra del fiume. Da giovane conobbe una ragazza, anche lei di famiglia contadina, di nome Italia Pesci che sarebbe diventata sua moglie e che rimase al suo fianco per tutta la vita.

La Grande Guerra


Come molti dei suoi coetanei Giusto Pinzani visse in prima persona le atrocità della Grande Guerra. Scoppiata nel luglio del 1914 e finita quattro anni dopo provocò la morte di oltre 16 milioni di persone, tra cui più di un milione di italiani. Fu mandato sul Piave, insieme ai ragazzi del ’99, come bersagliere ciclista. La sua fu una scelta dettata dalla passione e dalla dimestichezza che già stava coltivando per le bici.

I bersaglieri ciclisti erano un corpo speciale dei bersaglieri, nato nella seconda metà del 1800 per sfruttare la nuova tecnologia della bicicletta. Grazie alla loro velocità, rispetto ai semplici fanti, i bersaglieri ciclisti venivano utilizzati come apripista della fanteria e negli spostamenti veloci strategici. Il loro scopo primario era eliminare i nemici, mettendo in sicurezza le strade  prima del passaggio dei fanti,  grazie alla mitragliatrice montata sul tubo orizzontale del telaio. Era un compito molto rischioso che provocava un’altissima mortalità. Una bicicletta militare era costituita da: un telaio pieghevole del peso di 14 Kg. con appositi attacchi e relative cinghie per il trasporto a spalla; ruote di piccole dimensioni per maggior maneggevolezza e gomme piene antiforatura; due ammortizzatori sulla ruota anteriore e uno sulla forcella posteriore per compensare la rigidità delle gomme piene; freno anteriore  a bacchetta, interno al telaio (per non essere intralciato da eventuali carichi); e per finire una trasmissione a catena a scatto fisso. Proprio per questo motivo l’allenamento dei bersaglieri ciclisti era durissimo e solo chi aveva ottime gambe e grande fiato poteva aspirare a diventarlo. Grazie all’esercito che aveva creato il reparto dei bersaglieri ciclisti un giovane meccanico era riuscito a farsi un nome e nel 1911 ottenne l’appalto per la produzione in serie delle biciclette militari. Questo meccanico era il milanese Edoardo Bianchi.

Le suddette bici erano tutte uguali e Giusto, nell’utilizzarle, comprese l’importanza di “metterle a misura” modificandone alcune per sé e per altri suoi commilitoni. Per “mettere a misura” s’intende realizzare telai con dimensioni adeguate alle differenti misure delle persone.

La grande guerra fu traumatica per Giusto. Anni dopo raccontava alle sue amate nipotine degli orrori e della morte che aveva visto con i suoi occhi, sottolineando quanto sangue era stato versato in quei quattro anni di conflitto ma, ancora più terribile, che un soldato riuscisse bene o male a farci l’abitudine. Durante uno dei tanti scontri subì una gravissima ferita alla schiena, tale da fargli temere addirittura una paralisi. Fortunatamente la ferita guarì senza ulteriori danni e per questo fu congedato e rimandato a casa.

I Primi Anni A Firenze E L’Apertura Della Bottega


Dopo la guerra Pinzani si trasferì a Firenze in Via Settignanese e andò a bottega come apprendista da un artigiano. Dopo un paio di anni e dopo aver raggranellato un po’ di soldi aprì nel 1923 la sua bottega in via Gioberti n.85, bottega che nella sua cinquantenaria storia divenne un punto di riferimento per gli abitanti di via Gioberti e per tutti gli amanti e appassionati della bicicletta a Firenze.

La casa in Via Settignanese era una casetta con giardino dove viveva con sua moglie Italia da cui ebbe le sue due amate figlie, Rovena nel 1923 e Miriam due anni dopo. In quegli anni la vita era molto dura. Giusto, per andare a lavoro, doveva svegliarsi sempre molto presto e rientrava a casa non prima delle dieci di sera, stanco ed affaticato, mostrando però quell’amore e quella dedizione al lavoro che lo avrebbe sempre accompagnato per tutta la sua esistenza. Purtroppo il tragitto giornaliero non era dei più semplici. Giusto, con il suo fidato sidecar , doveva sempre perdere molto tempo ad attraversare i binari del treno che separavano la casa dalla bottega. Oggi esiste il cavalcavia dell’Affrico, inaugurato nel 1963, ma a quel tempo c’era solo un passaggio a livello e poiché quel tratto era, e lo è ancora, la linea di collegamento Firenze – Roma, il traffico ferroviario era sempre elevato e la sbarra rimaneva abbassata anche per più di mezz’ora.

 I primi anni del dopoguerra furono un periodo di crisi economica con la disoccupazione e l’inflazione crescenti. Fu caratterizzato da forti tensioni sociali, soprattutto riguardo al reinserimento dei reduci della prima guerra mondiale, e da grandi manifestazioni di violenza pubblica, in particolare nel cosiddetto biennio rosso. In questi anni nacque e crebbe il movimento fascista guidato da Benito Mussolini che, con le sue idee nazionaliste, prese sempre più forza nel paese. Nel 1922, con la marcia su Roma,  il re Vittorio Emanuele III, preferendo evitare ulteriore spargimento di sangue, decise di conferire l’incarico di primo ministro a Mussolini stesso. Con il discorso del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini  proclamò la dittatura, sopprimendo ogni residua libertà politica. In questo clima politico Giusto iniziò a produrre le sue bici facendosi un nome. Il lavoro non mancava alla bottega visto che erano un mezzo di locomozione comodo anche se a quei tempi non abbordabile per tutti, ne è prova il fatto che i suoi più affezionati clienti di quegli anni erano impiegati di banca. Per lavorare doveva avere la tessera del partito e doveva sempre indossare la camicia nera al passaggio delle ronde della polizia che ogni giorno facevano capolino dentro la bottega, e soprattutto la domenica quando andava con la famiglia in giro per le strade della città. Come molti altri Giusto accettava le imposizioni del fascismo anche per paura di  ritorsioni che andavano dalla chiusura dell’attività e di conseguenza alla rovina della famiglia, fino alla possibilità di subire atti violenti. La famiglia della moglie, Italia Pesci, che era sempre stata di ideologia di sinistra, partecipò a diverse attività partigiane e  i fratelli di Italia, di spiccato credo socialista, furono picchiati ripetutamente dalla polizia fascista per le loro ideologie politiche.

Nei primi anni trenta avvenne una svolta, la famiglia Pinzani riuscì a prendere in affitto l’appartamento sopra la bottega dove ha vissuto fino ai primi anni sessanta, nel più classico degli “uscio e bottega” di quegli anni. Il trasferimento però non fu indolore soprattutto per le figlie che, abituate al giardino e ad una certa libertà di movimento, si ritrovarono in un appartamento che le faceva sentire quasi in gabbia.

Anche per dare loro respiro, divennero grande momento di aggregazione familiare le scampagnate del fine settimana a Contea, dove tutta la famiglia andava sul sidecar guidato da Giusto, con la moglie, la figlia maggiore Rovena e il loro cane sulla carrozzina, mentre la secondogenita Miriam rimaneva a cavalcioni davanti al pilota. Uno dei suoi più grandi rimpianti fu di non aver mai avuto un figlio maschio, pur amando moltissimo le sue figlie, ovviamente.  Rovena era quella che si può definire oggi un po’ maschiaccio e Giusto si divertiva a portarla sulla moto  mettendola a cavalcioni davanti a lui e con le mani sul manubrio, come se fosse lei a guidare.

La Seconda Guerra Mondiale


La seconda guerra mondiale esplose il 1° settembre 1939 con l’invasione della Germania ai danni della Polonia e con le successive dichiarazioni di guerra di Francia e Inghilterra contro lo stato tedesco. L’Italia, pur alleata con Hitler tramite il Patto d’acciaio stipulato solo pochi mesi prima, non entrò subito in guerra. Solo nel giugno del 1940 Mussolini decise di entrare in scena a fianco del suo alleato teutonico. Come tutti sappiamo la guerra durò fino al 29 Aprile del 1945 ,data della liberazione di tutta l’Italia ad opera degli Americani e dei partigiani.

In quegli anni la bottega non chiuse mai, troppo grande era l’amore di Giusto per il suo lavoro. Grazie alla sua dedizione, sia durante la guerra che dopo,  riuscì a mantenere dignitosamente tutta la famiglia che in quegli anni si stava allargando con i matrimoni delle due figlie e l’arrivo delle nipotine. La Seconda Guerra Mondiale fu comunque un periodo estremamente difficile anche per la famiglia Pinzani, soprattutto nell’ultima parte, quando dovevano vivere continuamente nel terrore dei bombardamenti.

Firenze, rispetto ad altre città italiane, godette,  nei primi anni della guerra, di un trattamento speciale, sia da parte dai tedeschi che degli alleati. Culla del rinascimento e patrimonio mondiale dell’arte, in maniera implicita,  le parti in battaglia cercarono sempre di non arrivare mai a quello che purtroppo poi sarebbe accaduto, bombardare Firenze. I fiorentini fino al 1943, al sentire i rumori degli aerei americani, non si scomponevano, alzavano curiosi le teste e dicevano:“tanto vanno a Pontassieve”.  Quello che gli alleati volevano colpire era infatti la ferrovia che collegava Roma con Firenze e con tutto il Nord Italia, e così i paesi di Compiobbi, Sieci, Pontassieve e S.Ellero furono quasi rasi al suolo. Ma purtroppo il 25 settembre del 1943 bombe alleate, con l’intento di distruggere le ferrovie a Campo di Marte, colpirono via Mannelli devastandola, mentre altre bombe colpirono la zona Stadio e piazza della Libertà. Quel giorno persero la vita 215 persone, i primi morti a Firenze sotto i bombardamenti alleati. In tutto Firenze, dal 1940 al 1944, ha subito 325 allarmi, 25 bombardamenti e 7 bombardamenti pesanti. Il numero delle vittime salì fino a oltre 700.

Per fortuna dei Pinzani la palazzina dove abitavano non fu mai colpita dalle bombe. Ma il terrore era sempre grande. Dopo il primo attacco anche Firenze si attrezzò, all’arrivo dei bombardieri,  con sirene di segnalazione e  con la creazione di posti sicuri dove i cittadini avrebbero potuto rifugiarsi. I Pinzani avevano trovato un casolare in periferia, dove oggi si trova la sede del complesso sportivo gli Assi. Al suonare della prima sirena Giusto prendeva le bici per tutta la famiglia e, scampanellando, gridava di spicciarsi. Era consapevole che avevano solo pochi minuti per fuggire. Strano a dirsi, ma Italia, moglie di un artigiano di biciclette, non sapeva andare in bici e perciò Giusto la faceva salire sulla canna orizzontale e la portava a colpi di pedale lontano dalle bombe.

Fino Agli Anni Sessanta


Un grande cambiamento nella vita della famiglia Pinzani avvenne all’inizio degli anni 60. Con le due figlie che avevano già trovato marito e con l’arrivo delle nipotine, Giusto comprò due appartamenti, uno accanto all’altro in Via Gioberti 62, a due passi dalla sua bottega e abbandonò così la casa dove avevano vissuto per quasi trenta anni. In quegli anni Via Gioberti era diversa da come la possiamo vedere oggi e aveva soprattutto una peculiarità, era una via piena di artigiani. La bottega Pinzani era collocata in una realtà dove il lavoro manuale e l’arte del fare erano pane quotidiano. Dal fontaniere al calzolaio, dal pollaiolo al cartolaio, fino alla bottega di caccia e pesca, accanto al portone della vecchia casa dei Pinzani, per ogni merce c’era il suo negozio e in alcuni casi ce n’erano più d’uno, come per esempio i tre ortolani o i due macellai che lavoravano sempre in competizione tra loro. Anche Giusto  aveva due concorrenti, il negozio Morozzi, che si trovava in cima a via Gioberti e la bottega Montelatici proprio all’inizio della strada. Morozzi non era un costruttore di biciclette ma un rivenditore di bici e accessori, oltre che di macchine da cucire e altri articoli. Le nipotine andavano spesso davanti le vetrine a comparare i prezzi degli accessori che anche il nonno montava sulle sue biciclette e che rivendeva. Giusto però non se ne curava e non voleva assolutamente venderli ad un prezzo più basso perché, anche se non erano articoli fabbricati da lui, sarebbero comunque diventati accessori di una bici Pinzani. Questa rivalità esisteva anche con Montelatici che, per vincere la concorrenza, teneva i prezzi più bassi, ma Pinzani, anche in questo caso, si sentiva un artigiano superiore e perciò il suo credo era: ben venga che le mie costino di più perché sono le migliori. Possiamo dire che  il lato commerciale del lavoro non era proprio il suo forte. La sua passione consisteva unicamente nella realizzazione della bicicletta. Se qualche potenziale cliente entrava nella bottega Giusto si comportava in maniera quasi contrariata perché costretto ad abbandonare la sua creazione. Comunque riusciva a mostrarsi gentile se il cliente era un appassionato,  ma se non lo era o non si esprimeva in termini tecnici corretti lo liquidava in quattro e quattr’otto perché, secondo lui, le persone che entravano nella sua bottega dovevano sapere cosa volevano, senza fargli perdere tempo. Per arginare questo suo modo scorbutico di trattare i clienti la moglie Italia si offrì di dialogare col pubblico riuscendo ad essere più gentile e accomodante del marito.

Pinzani, oltre alla bicicletta, aveva altri due grandi amori: i motori e la pesca. Quest’ultima, nata fin da piccolo lungo le rive del fiume Sieve, era una passione molto adatta al suo carattere chiuso e taciturno e Giusto la praticò per tutta la sua vita. Sia dopo una dura settimana di lavoro, sia negli anni in cui era in pensione, la domenica  si svegliava prestissimo ed in sella alla sua bicicletta andava con gli amici a pescare. Ogni tanto si svegliava talmente presto da trovare le figlie o le nipoti di ritorno dalle serate passate con gli amici. Si dilettava sia con la canna sia con la rete a bilancia, tecnica di pesca molto difficile che richiedeva molta forza.

L’altra passione di Pinzani riguardava i motori. All’inizio aveva un sidecar ma dopo la seconda guerra mondiale riuscì a raggranellare un po’ di soldi per comprare la loro prima auto, una Balilla grigia con la quale la domenica faceva fare un giro per Firenze alla famiglia. Successivamente passò ad una Lancia Aurelia. Comprò anche una Giardinetta che usava per trasportare tutti gli attrezzi della pesca. In famiglia anche le sue due figlie presero la patente, cosa assolutamente non usuale per l’epoca. Infatti all’inizio anche lo stesso Pinzani era scettico sulla loro riuscita, ma una volta che le figlie ottennero la patente si mostrò molto orgoglioso di loro.

L’Anno Dell’Alluvione


Il 1966 costituisce  per Firenze e per i fiorentini che l’hanno vissuto un anno nefasto che non verrà mai dimenticato.  Infatti il 4 novembre è ricordato come il giorno dell’alluvione di Firenze.   L’Arno straripò la mattina presto e, come molti cittadini, la famiglia Pinzani non si accorse subito di quello che stava accadendo. Quando Giusto fece per  andare in bottega capì che qualcosa di strano stava accadendo e, aperte le finestre del salotto, si rese conto che fuori,  al posto della strada, c’era un fiume che scorreva impetuoso al livello della finestra . Per un intero giorno rimasero tutti bloccati in casa soffrendo per il freddo, per l’umido, senza corrente elettrica e senza riscaldamento. Per fortuna i soccorsi arrivarono consegnando lo stretto indispensabile come cibo, acqua e coperte. Oltre a questi disagi  l’acqua emanava un odore pungente dovuto alle fogne e alla nafta; si pensi infatti che le caldaie per il riscaldamento erano allora quasi tutte a gasolio. L’acqua trasportava anche altre sostanze e  detriti vari, rendendo ancora più difficile la sopravvivenza di centinaia di famiglie.

La bottega fu uno dei tantissimi esercizi commerciali ad essere quasi totalmente devastati dall’alluvione. In negozio i danni maggiori li subirono gli elementi di pelle come vestiario, guanti e selle, ma  anche le biciclette riportarono parecchi danni. Uno dei motivi per cui le Pinzani sono biciclette rare è dato dal fatto che i fiorentini le lasciavano negli scantinati,  i primi ad essere stati allagati e gli ultimi ad essere stati svuotati; quindi vennero praticamente quasi tutte logorate e distrutte. Pinzani però non si dette per vinto e, insieme al suo aiutante Osvaldo e supportato anche dalla famiglia, smontò le bici che aveva in bottega  e iniziò ad  immergere i vari componenti di metallo nell’olio, per cercare di ripulirli e rallentare così la degradazione del materiale. In questo modo riuscì a salvarne una buona parte. Dopo l’alluvione molti mercanti misero in vendita i prodotti alluvionati a basso prezzo perché sciupati. Ma non Pinzani! In maniera un po’ arrogante, potremmo dire,  non ammise mai di avere subito gravi danni come tutti, e perciò non vendette mai una sua creazione a basso prezzo, anche se in realtà alluvionata; comportamento che sottolinea una certa testardaggine ma anche e soprattutto la consapevolezza del valore del suo lavoro e delle sue creazioni che non volle svendere anche se danneggiate.

Gli Ultimi Anni


Pinzani è sempre rimasto legato ai suoi luoghi d’infanzia, soprattutto a Contea. Proprio il suo paese di origine divenne con gli anni il luogo delle vacanze. Giusto  prendeva ferie solo nella settimana di ferragosto e prenotava alcune camere sopra una trattoria del paese, trascorrendo le vacanze insieme alle figlie prima, e alle nipoti poi . Questa divenne una piacevole abitudine sia perché poteva dedicarsi alla pesca, la sua grande passione, sia perché era l’occasione per rivedere amici e parenti. Agli inizi del 1972 riuscì a comprare la casa dove era nato e cresciuto nei primi anni della sua vita, cioè all’Apparita, dove sperava di vivere una volta andato in pensione. I primi ad abitare la nuova/vecchia casa di famiglia Pinzani furono però la figlia Miriam e la nipote Patrizia, neo laureata nell’aprile di quell’anno. Proprio a causa degli studi la nipote era arrivata alla laurea ormai stanca e sfinita e il nonno le propose di riposarsi nella sua nuova casa che divenne ben presto un luogo amato anche da lei. Nell’estate del 1972 Giusto Pinzani andò in pensione lasciando la bottega nelle mani del suo operaio Osvaldo, anche se negli anni successivi non disdegnò di realizzare qualche telaio come ai vecchi tempi, e si trasferì insieme alla moglie Italia nella casa all’Apparita, dove amava trascorrere  i mesi primaverili ed estivi. Tornava in città ai primi freddi, a novembre, e vi rimaneva fino a febbraio/marzo. In quegli anni, la domenica, invitava sempre la sua famiglia e i suoi parenti di Contea a pranzare nei locali più famosi della zona, come il girarrosto di Pontassieve o a Dicomano, dove veniva sempre riconosciuto e trattato con ammirazione da tutti.

Uomo burbero e tutto d’un pezzo ha sempre dimostrato amore verso la sua famiglia più con i gesti che con le parole. Un aneddoto molto importante ricordato dalla nipote Patrizia avvenne  durante una calda giornata estiva a Contea. Giusto, insieme alla moglie Italia e alle nipotine, si stava godendo un tranquillo pomeriggio in riva al fiume. Mentre era dedito alla pesca sulla riva, la moglie che era vicino a lui su un gruppetto di rocce, inciampò e cascò nel fiume, e non sapendo nuotare stava andando verso una morte certa. Tra le grida e lo sgomento del resto della famiglia terrorizzata, Giusto non si lasciò prendere dal panico, abbandonò  la sua canna da pesca e si tuffò nel fiume senza pensarci due volte, riuscendo a raggiungere la sua consorte e a salvarle la vita.

Visse i suoi ultimi anni a Contea, accanto alla moglie, fino alla  morte avvenuta il 14 dicembre 1986. Quando morì fu chiaro ai più che con lui non se n’era andato soltanto un pezzo di ciclismo “romantico” ma una parte importante della vecchia Firenze: tre generazioni di giovani, non necessariamente appassionati di ciclismo, almeno una volta,  hanno sostato davanti alla bottega di Giusto Pinzani, soprattutto il lunedì  quando esponeva le biciclette da corsa che il giorno prima avevano trionfato in qualche competizione ciclistica.